A volte mi chiedono:
“Cosa pensi di aver lasciato ai poveri dopo un mese in Africa?”...
“Poco o niente” è la mia risposta, che delude un po' chi
ascolta. Devo ammettere che anch'io, prima di partire, avevo
programmato di dare qualcosa; il mio tempo prima di tutto, di dare un
aiuto concreto nel pitturare l'ospedale, di dare soldi, vestiti e
giochi ai bambini, di dare sostegno alle persone. Inaspettatamente,
però, quello che ho dato è risultato essere molto meno rispetto a
quello che ho ricevuto come regalo.
Mi è stata donata la
possibilità di apprezzare la bellezza della diversità, di
intravedere una cultura così lontana rispetto a quella a cui sono
abituata. L'ho intravista soltanto perché per comprenderla penso non
basti una vita intera passata in missione.
Ho avuto la fortuna di
provare ad essere io la straniera, la muzungu (bianca) da osservare,
inquadrare, misurare e ho avuto anche la fortuna di essere accolta da
tante risate e non da uomini in divisa pronti a sbattermi in centri
di accoglienza come quelli che abbiamo noi in Italia, che nulla hanno
da invidiare ad un carcere per criminali senza colpa.
Si arriva in Africa con
il desiderio di dare finalmente una risposta alle domande, ai tanti
dubbi, e ci si ritrova nel buio di una sera, illuminati solo dalla
luce bianca della luna a porsi mille altri perché, ad aggiungere
domande alle domande, a sentirsi piccoli, inutili, in colpa. L'
Africa non risponde proprio a un bel niente, interroga soltanto.
I congolesi, con i loro
piedi consumati ed induriti dal lento ed incessante camminare,
impolverati dalla terra rossa della strada, mi hanno invitato a
considerare l'esistenza di un'altra dimensione del tempo: quello
vero. Il tempo non calcolato e sminuzzato in secondi, minuti da non
perdere; non ossessionato da orari da rispettare, scadenze da tenere
presente, dall'ansia e dal nervosismo del traffico cittadino. Il loro
tempo, quello vero, concede di spostarsi camminando lentamente, di
fermarsi a parlare con le persone che si incontrano, cominciando la
conversazione con la consueta fragorosa risata. Il loro tempo, quasi
senza tempo per noi occidentali, si misura con il sole, con il buio,
con le stagioni, con gli acquazzoni e con i periodi secchi. A loro il
tempo consente di fermarsi a guardare il cielo, di camminare con gli
occhi rivolti verso l'alto senza paura di andare a sbattere, di
vedere la terra sulla quale si cammina e non di concentrarsi soltanto
sul colore dei semafori. Nessun africano rimprovererà mai qualcuno
di essere in ritardo.
Gli occhi pieni di gioia
di quella bambina a cui abbiamo regalato un palloncino, mi hanno
insegnato quanto sia importante essere felici per i piccoli
avvenimenti di ogni giorno e di quanto bisogna essere riconoscenti
per un nuovo giorno che inizia, per il sole, per il vento, per la
pioggia, per il pane, per un sorriso, per le capanne, per gli
animali, per i figli, per i genitori. Mi sono accorta che i soldi non
danno la felicità, perché ho visto che anche senza averne tanti si
può essere ancora più contenti.
Il modo e l'intensità
con cui gli africani lodano Dio, mi hanno permesso di riflettere
sulla loro grande fede sincera, disinteressata, riconoscente. E
noi... di quante cose dobbiamo essere riconoscenti? Se avessimo un
minimo della loro fede non smetteremmo un secondo di lodare Dio.
I loro balli, le loro
canzoni, i loro strumenti, le loro voci mi hanno fatto sentire la
presenza di Qualcuno in mezzo; loro, adorato in ginocchio davanti ad
una semplice croce di legno e mangiato in un pezzo di pane.
Notando l'affetto delle
persone (mai viste prima) che si incontravano per strada, i loro
sorrisi, le loro strette di mano possenti e lunghe, la loro felicità,
mi sono chiesta come mai noi a malapena riusciamo a salutare con uno
stringato "ciao" sussurrato tra i denti, le persone che
conosciamo e come mai ci siano cosi pochi sorrisi sui nostri volti,
anche se, come si è soliti dire, abbiamo tutto ciò che si può
desiderare dalla vita (sarà poi vero?).
Il buio avvolgente e
penetrante della scura notte africana mi ha regalato la visione di un
cielo stellato come non l'avevo mai visto, con tante tante stelle e
mi sono potuta accorgere di quanta luce, una bellissima luce bianca,
possa fare la luna, che qui tra lampioni, case, luci e fari neanche
vediamo a volte.
Siamo sicuri che stiamo
meglio noi del "primo mondo" e che dobbiamo aiutare i
poveri sfortunati del "terzo mondo", o non saremo noi
invece ad aver bisogno di aiuto? Non quello materiale, ma un altro
genere di sostegno...
Non sono stata né brava,
né coraggiosa, né generosa a passare un mese in Congo. Sono stata
soltanto molto fortunata.
Chiara