mercoledì 23 luglio 2014

E li chiamiamo poveri?

Ecco un bell'articolo (scritto da Chiara, al suo rientro dall'Africa), che può spiegare meglio di qualunque discorso quello che speriamo di incontrare nel nostro viaggio di nozze "alternativo"!



A volte mi chiedono: “Cosa pensi di aver lasciato ai poveri dopo un mese in Africa?”... “Poco o niente” è la mia risposta, che delude un po' chi ascolta. Devo ammettere che anch'io, prima di partire, avevo programmato di dare qualcosa; il mio tempo prima di tutto, di dare un aiuto concreto nel pitturare l'ospedale, di dare soldi, vestiti e giochi ai bambini, di dare sostegno alle persone. Inaspettatamente, però, quello che ho dato è risultato essere molto meno rispetto a quello che ho ricevuto come regalo.

Mi è stata donata la possibilità di apprezzare la bellezza della diversità, di intravedere una cultura così lontana rispetto a quella a cui sono abituata. L'ho intravista soltanto perché per comprenderla penso non basti una vita intera passata in missione.

Ho avuto la fortuna di provare ad essere io la straniera, la muzungu (bianca) da osservare, inquadrare, misurare e ho avuto anche la fortuna di essere accolta da tante risate e non da uomini in divisa pronti a sbattermi in centri di accoglienza come quelli che abbiamo noi in Italia, che nulla hanno da invidiare ad un carcere per criminali senza colpa.

Si arriva in Africa con il desiderio di dare finalmente una risposta alle domande, ai tanti dubbi, e ci si ritrova nel buio di una sera, illuminati solo dalla luce bianca della luna a porsi mille altri perché, ad aggiungere domande alle domande, a sentirsi piccoli, inutili, in colpa. L' Africa non risponde proprio a un bel niente, interroga soltanto.

I congolesi, con i loro piedi consumati ed induriti dal lento ed incessante camminare, impolverati dalla terra rossa della strada, mi hanno invitato a considerare l'esistenza di un'altra dimensione del tempo: quello vero. Il tempo non calcolato e sminuzzato in secondi, minuti da non perdere; non ossessionato da orari da rispettare, scadenze da tenere presente, dall'ansia e dal nervosismo del traffico cittadino. Il loro tempo, quello vero, concede di spostarsi camminando lentamente, di fermarsi a parlare con le persone che si incontrano, cominciando la conversazione con la consueta fragorosa risata. Il loro tempo, quasi senza tempo per noi occidentali, si misura con il sole, con il buio, con le stagioni, con gli acquazzoni e con i periodi secchi. A loro il tempo consente di fermarsi a guardare il cielo, di camminare con gli occhi rivolti verso l'alto senza paura di andare a sbattere, di vedere la terra sulla quale si cammina e non di concentrarsi soltanto sul colore dei semafori. Nessun africano rimprovererà mai qualcuno di essere in ritardo.

Gli occhi pieni di gioia di quella bambina a cui abbiamo regalato un palloncino, mi hanno insegnato quanto sia importante essere felici per i piccoli avvenimenti di ogni giorno e di quanto bisogna essere riconoscenti per un nuovo giorno che inizia, per il sole, per il vento, per la pioggia, per il pane, per un sorriso, per le capanne, per gli animali, per i figli, per i genitori. Mi sono accorta che i soldi non danno la felicità, perché ho visto che anche senza averne tanti si può essere ancora più contenti.

Il modo e l'intensità con cui gli africani lodano Dio, mi hanno permesso di riflettere sulla loro grande fede sincera, disinteressata, riconoscente. E noi... di quante cose dobbiamo essere riconoscenti? Se avessimo un minimo della loro fede non smetteremmo un secondo di lodare Dio.

I loro balli, le loro canzoni, i loro strumenti, le loro voci mi hanno fatto sentire la presenza di Qualcuno in mezzo; loro, adorato in ginocchio davanti ad una semplice croce di legno e mangiato in un pezzo di pane.

Notando l'affetto delle persone (mai viste prima) che si incontravano per strada, i loro sorrisi, le loro strette di mano possenti e lunghe, la loro felicità, mi sono chiesta come mai noi a malapena riusciamo a salutare con uno stringato "ciao" sussurrato tra i denti, le persone che conosciamo e come mai ci siano cosi pochi sorrisi sui nostri volti, anche se, come si è soliti dire, abbiamo tutto ciò che si può desiderare dalla vita (sarà poi vero?).

Il buio avvolgente e penetrante della scura notte africana mi ha regalato la visione di un cielo stellato come non l'avevo mai visto, con tante tante stelle e mi sono potuta accorgere di quanta luce, una bellissima luce bianca, possa fare la luna, che qui tra lampioni, case, luci e fari neanche vediamo a volte.

Siamo sicuri che stiamo meglio noi del "primo mondo" e che dobbiamo aiutare i poveri sfortunati del "terzo mondo", o non saremo noi invece ad aver bisogno di aiuto? Non quello materiale, ma un altro genere di sostegno...

Non sono stata né brava, né coraggiosa, né generosa a passare un mese in Congo. Sono stata soltanto molto fortunata.

                                                                                             Chiara